A diciannove anni, Marta si affacciò dalla sommità del grattacielo e, vedendo di sotto la città risplendere nella sera, fu presa dalle vertigini.
Il grattacielo era d’argento, supremo e felice in quella sera bellissima e pura, mentre il vento stirava sottili filamenti di nubi, qua e là, sullo sfondo di un azzurro assolutamente incredibile. Era infatti l’ ora che le città vengono prese dall’ispirazione e chi non è cieco ne resta travolto.
Dall’aereo culmine la ragazza vedeva le strade e le masse dei palazzi contorcersi nel lungo spasimo del tramonto e là dove il bianco delle case finiva, cominciava il blu del mare che visto dall’alto sembrava in salita. E siccome dall’oriente avanzavano i velari della notte, la città divenne un dolce abisso brulicante di luci; che palpitava.
Un giovanotto, alto, bruno, assai distinto, allungò le braccia per ghermirla. Le piaceva. Eppure Marta si schermì velocemente: «Come si permette, signore?» e fece in tempo a dargli con un dito un colpetto sul naso. La gente di lusso si occupava dunque di lei e ciò la riempiva di soddisfazione. Si sentiva affascinante, di moda. Sulle fiorite terrazze, tra l’andirivieni di camerieri in bianco e le folate di canzoni esotiche si parlò per qualche minuto, o forse meno, di quella giovane che stava passando (dall’alto in basso, con rotta verticale). Alcuni la giudicavano bella, altri così così, tutti la trovarono interessante. «Lei ha tutta la vita davanti» le dicevano «perché si affretta così? Ne ha di tempo disponibile per correre e affannarsi. Si fermi un momento con noi, non è che una modesta festicciola tra amici, intendiamoci, eppure si troverà bene.» Lei faceva atto di rispondere ma già l’accelerazione di gravità l’aveva portata al piano di sotto, a due, tre, quattro piani di sotto; come si precipita infatti allegramente quando si hanno appena diciannove anni. Certo la distanza che la separava dal fondo, cioè dal livello delle strade, era immensa; meno di poco fa, certamente, tuttavia sempre considerevole. Nel frattempo però il sole si era tuffato nel mare, lo si era visto scomparire trasformato in un tremolante fungo rossastro. Non c’erano quindi più i suoi raggi vivificanti a illuminare l’abito della ragazza e a farne una seducente cometa. Meno male che i finestrini e le terrazze del grattacielo erano quasi tutti illuminati e gli intensi riverberi la investivano in pieno via via che passava dinanzi.
Ora nell’interno degli appartamenti Marta non vedeva più soltanto compagnie di gente spensierata, di quando in quando c’erano pure degli uffici dove le impiegate, in grembiali neri o azzurri, sedevano ai tavolini in lunghe file. Parecchie erano giovani come e più di lei e, ormai stanche della giornata, alzavano ogni tanto gli occhi dalle pratiche e dalle macchine per scrivere. Anch’esse così la videro, e alcune corsero alle finestre: «Dove vai? Perché tanta fretta? Chi sei?» le gridavano, nelle voci si indovinava qualcosa di simile all’invidia. «Mi aspettano laggiù» rispondeva lei. «Non posso fermarmi. Perdonatemi.» E ancora rideva, fluttuando sul precipizio, ma non erano più le risate di prima. La notte era subdolamente discesa e Marta cominciava a sentir freddo. In quel mentre, guardando in basso, vide all’ingresso di un palazzo un vivo alone di luci. Qui lunghe automobili nere si fermavano (per la distanza grandi come formiche), e ne scendevano uomini e donne, ansiosi di entrare. Le parve di distinguere, in quel formicolio, lo scintillare dei gioielli. Sopra l’entrata sventolavano bandiere. Davano una grande festa, evidentemente, proprio quella che lei, Marta, sognava da quando era bambina. Guai se fosse mancata. Laggiù l’aspettava l’occasione, la fatalità, il romanzo, la vera inaugurazione della vita. Sarebbe arrivata in tempo? Con dispetto si accorse che una trentina di metri più in là un’altra ragazza stava precipitando. Era decisamente più bella di lei e indossava un vestito da mezza sera, abbastanza di classe. Chissà come, veniva giù a velocità molto superiore alla sua, tanto che in pochi istanti la sopravanzò e sparì in basso, sebbene Marta la chiamasse. Senza dubbio sarebbe giunta alla festa prima di lei, poteva darsi che fosse tutto un piano calcolato per soppiantarla.
Poi si rese conto che a precipitare non erano loro due sole. Lungo i fianchi del grattacielo varie altre donne giovanissime stavano piombando in basso, i volti tesi nell’eccitazione del volo, le mani festosamente agitate come per dire: eccoci, siamo qui, è la nostra ora, fateci festa, il mondo non è forse nostro? Era una gara, dunque. E lei aveva soltanto un misero abitino, mentre quelle altre sfoggiavano modelli di gran taglio e qualcuna perfino si stringeva, sulle spalle nude, ampie stole di visone. Così sicura di sé quando aveva spiccato il volo, adesso Marta sentiva un tremito crescerle dentro, forse era semplicemente il freddo ma forse era anche paura, la paura di aver fatto uno sbaglio senza rimedio. Sembrava notte profonda ormai. Le finestre si spegnevano una dopo l’altra, gli echi di musica divennero più rari, gli uffici erano vuoti, nessun giovanotto si sporgeva più dai davanzali tendendo le mani. Che ora era? All’ingresso del palazzo laggiù – che nel frattempo si era fatto più grande, e se ne potevano distinguere ormai tutti i particolari architettonici – permaneva intatta la luminaria, ma l’andirivieni delle automobili era cessato. Di quando in quando, anzi, piccoli gruppetti uscivano dal portone allontanandosi con passo stanco. Poi anche le lampade dell’ingresso si spensero. Marta sentì stringersi il cuore. Ahimè, alla festa, non sarebbe più giunta in tempo. Gettando un’occhiata all’insù, vide il pinnacolo del grattacielo in tutta la sua potenza crudele. Era quasi tutto buio, rare e sparse finestre ancora accese agli ultimi piani. E sopra la cima si spandeva lentamente il primo barlume dell’alba. In un tinello del ventottesimo piano un uomo sui quarant’anni stava prendendo il caffè del mattino e intanto leggeva il giornale, mentre la moglie rigovernava la stanza. Un orologio sulla credenza segnava le nove meno un quarto. Un’ombra passò repentina dinanzi alla finestra.
«Alberto» gridò la moglie «hai visto? E’ passata una donna.»
«Com’era?» fece lui senza alzare gli occhi dal giornale. «Una vecchia» rispose la moglie. «Una vecchia decrepita. Sembrava spaventata.» «Sempre così» l’uomo brontolò. «A questi piani bassi non passano che vecchie cadenti. Belle ragazze si vedono dal cinquecentesimo piano in su. Mica per niente quegli appartamenti costano così cari.» «C’è il vantaggio» osservò la moglie «che quaggiù almeno si può sentire il tonfo, quando toccano terra.» «Stavolta, neanche quello» disse lui, scuotendo il capo, dopo essere rimasto alcuni istanti in ascolto. E bevve un altro sorso di caffè.
(Dino Buzzati)
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